Impossibilità oggettiva per cause esterne non imputabili al debitore

“La causa in concreto – intesa quale scopo pratico del contratto, in quanto sintesi degli interessi che il singolo negozio è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello negoziale utilizzato – conferisce rilevanza ai motivi, sempre che questi abbiano assunto un valore determinante nell’economia del negozio, assurgendo a presupposti causali, e siano comuni alle parti o, se riferibili ad una sola di esse, siano comunque conoscibili dall’altra”. La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, con la conseguente possibilità di attivare i rimedi restitutori, ai sensi dell’art. 1463 cod. civ., può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico, e cioè sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile sia da quella la cui prestazione sia rimasta possibile. In particolare, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione. In particolare, si deve escludere che l’impossibilità sopravvenuta debba essere necessariamente ricollegata al fatto di un terzo: la non imputabilità al debitore, ex art. 1256 c.c., non restringe il campo delle ipotesi ma consente di allargare l’applicazione della norma a tutti i casi, meritevoli di tutela, in cui sia impossibile, per eventi imprevedibili e sopravvenuti, utilizzare la prestazione oggetto del contratto.” (Cass. civile n. 18047/2018).

Il tema dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione è sempre stato oggetto di numerosi dibattiti in dottrina, poi sempre trasformati in veri e propri principi fissati dalla giurisprudenza che, tuttavia, oggi opera anche senza impulso.

Difatti, gli operatori del diritto negli anni hanno tutti contribuito ad evolvere l’interpretazione delle norme di cui all’art. 1256 c.c.

Tuttavia, oggi, probabilmente alla luce delle difficoltà nate per effetto dalla pandemia mondiale, le norme inerenti l’impossibilità della prestazione e la non imputabilità dell’inadempimento ex art. 1218 c.c. devono e dovranno, forse, essere oggetto di una rivisitazione da parte del legislatore che, tuttavia, già in seno al decreto cura Italia ha fatto menzione.

Ciò detto, molto più di quanto si possa pensare nell’ambito di un rapporto di debito-credito si verifica che le prestazioni, ovvero anche una sola, possono divenire “impossibili”, sicché, si pone il problema dell’estinzione dell’obbligazione così come affermato dal 1256 c.c:

“L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile.”

Orbene, ancorché apparentemente semplice nella lettura, il nodo della questione per poter affermare estinta e, pertanto, esonerato il debitore dall’adempimento, consiste nell’individuare quali ipotesi determinano una prestazione – cioè un pagamento di denaro, la consegna di una cosa – impossibile.

Certo è che se l’impossibilità fosse causata dallo stesso debitore, quest’ultimo nulla può eccepire in termini di estinzione poiché egli stesso ha dato luogo all’evento che ne ha determinato l’impossibilità di eseguire la prestazione.

Ne consegue che il debitore resterà obbligato all’esecuzione della prestazione. Sul punto, come ribadito dalla Suprema Corte in seno a innumerevoli sentenze che consolidano il principio secondo, stante l’intervenuta impossibilità causata del debitore“…si determina la conversione dell’obbligazione di adempimento in quella di risarcimento del danno…” (Cass. n. 7580/1982).

Ma ad eccezione dell’impossibilità cagionata dallo stesso debitore, l’impossibilità dovuta ad un fatto ad egli non imputabile dovrà certamente consistere “…non in una mera difficoltà, ma in un impedimento obbiettivo ed assoluto che non possa essere rimosso, non potendosi ravvisare nella mera impotenza economica derivante dall’inadempimento di un terzo nell’ambito di un diverso rapporto” (Cass. n. 25777/2013).

E’ obbligo del debitore provare di aver fatto di tutto per impedire l’evento fortuito, di forza maggiore o anche il fatto del terzo che abbia reso la prestazione impossibile. Un compito del tutto complicato.

In altre parole, dopo la stipula del contratto le successive difficoltà che il soggetto incontra per l’esecuzione della prestazione non determinano di per sé l’estinzione dell’obbligazione per impossibilità oggetto, poiché la stessa si verifica solo allorquando vi è un impedimento che non può essere eliminato e neanche temporaneo.

Difatti, ove la prestazione possa in un tempo successivo eseguirsi, la circostanza non determina l’estinzione giacché si verifica solo una difficoltà oggettiva e impossibilità di eseguire la prestazione da parte del debitore ma temporanea.

Sotto tale profilo cosi dispone l’art. 1256 comma 2 c.c:

“Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento. Tuttavia l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla.”

Tuttavia, anche sotto profilo del differimento della prestazione è chiaro che le parti non possono restare ancorate ad un evento incerto ed imprevedibile costituito dal venire meno del fatto impeditivo, poiché, l’evento invalidante deve essere tale da salvaguardare l’interesse delle parti alla prestazione.

Si tenga conto, difatti, che un impossibilità temporanea ma che differisce eccessivamente la prestazione nel tempo può senza dubbio far venire meno le ragioni e gli interessi per i quali le parti hanno stipulato un accordo.

Ne deriverebbe anche in questi casi l’estinzione a favore del debitore.

Ultimo interessante spunto è quello riferibile a quanto sancito dalla Suprema Corte nel principio in epigrafe.

Sulla base di un dibattito tutto di diritto, vi è parte della giurisprudenza che evidenzia come l’estinzione dell’obbligazione prende luce anche nelle ipotesi in cui il creditore, sempre per fatti a esso non imputabili, non possa più per impossibilità (forza maggiore, caso fortuito, fatto di un terzo) ricevere la prestazione, sicché, ne deriva l’estinzione del rapporto contrattuale.

“La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, con la conseguente possibilità di attivare i rimedi restitutori, ai sensi dell’art. 1463 cod. civ., può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico, e cioè sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile sia da quella la cui prestazione sia rimasta possibile. In particolare, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione.” (Cass. n. 18047/2018).

Il principio è corretto e soprattutto fornisce un’interpretazione delle norme sull’impossibilità oggettiva anche contemporanea. Sul punto, occorre evidenziare che non avallare tale interpretazione significa dare importanza alla prestazione del debitore che a nulla rileva sul piano economico-patrimoniale poiché non potrà mai essere ricevuta dal creditore. Ciò almeno nell’ambito dei contratti con prestazione unilaterale.

Effettivamente, ove vi fossero prestazione corrispettive, il debitore potrebbe avere interesse ad adempire poiché alla luce dell’impossibilitò oggettiva va da sè la risoluzione del contratto, favorevole al creditore.

E allora, la Suprema Corte nella sentenza in epigrafe chiarisce che se gli interessi delle parti sottostanti il contratto sono comuni e se unilaterali conosciuti ad entrambi, non vi è dubbio che si possa procedere alla risoluzione per impossibilità oggettiva anche nell’ipotesi di in cui sia il creditore a non poterla ricevere.

Diverso il caso in cui gli interessi concreti delle parti fossero diversi e non comuni, giacché il debitore potrebbe, ad esempio, potrebbe avere interesse a ricevere la cosa in cambio della sua prestazione che il creditore, tuttavia, non è più in grado di ricevere.

Per tale motivi il dibattito in giurisprudenza e dottrina sussiste.

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