“Ai fini della configurazione del rapporto tra una cooperativa di produzione e lavoro ed il socio d‘opera, lo scopo mutualistico di assicurare ai singoli soci una continuità di lavoro e più favorevoli condizioni di guadagno e la previsione di remunerazioni predeterminate a favore dei soci lavoratori, non consentono di individuare gli elementi costitutivi di un rapporto di lavoro dipendente, né di effettuare una equiparazione della peculiare disciplina associativa a tale rapporto” (Cass. n. 16072/2004)

Nei rapporti societari non raramente capita che all’atto del conferimento da parte dei soci, al fine di acquisire detto status i contraenti effettuino conferimenti diversi da quelli in denaro con l’effetto che il debito sul conferimento può essere anche adempiuto mediante apporto di prestazione lavorativa.
La questione è semplice ancorché nell’ambito delle società di persone ove è possibile conferire attività lavorativa “manuale” o intellettuale, possono sorgere dubbi in merito alla effettiva posizione del socio – lavoratore specie in ordine alla determinazione della quota e della distinzione con il lavoratore subordinato.
In tal senso, la giurisprudenza della Cassazione ha richiamato il principio di proporzionalità presunta di cui all’art. 2263 c.c. ove, nell’ipotesi di mancata specificazione e/o patto contrario, non può esservi corrispondenza automatica tra attribuzione della quota e prestazione del socio d’opera.
In particolare nella pronuncia n. 8468/1195 la S.C. ha ribadito che salvo determina della quota in statuto, la stessa deve essere rimessa alla decisione del Giudice nelle ipotesi di socio d’opera.
Il ragionamento adottato dalla corte regge sul principio secondo cui la prestazione che costituisce conferimento non può, al pari degli apporti in denaro, corrispondere in via presuntiva e in mancanza di determinazione tra i soci, ad una certa quota di partecipazione e ciò perché la natura della prestazione è di per sé variabile per molteplici fattori sicché necessita di determinazione equitativa del Giudice:
“La presunzione di eguale obbligo di conferimento del socio della società semplice e di eguale partecipazione del medesimo alla società, stabilita, in mancanza di patto contrario, dagli artt. 2253 c.c. e 2263 c.c., è esclusa per il socio d’opera, la cui quota, in considerazione della particolare natura della prestazione d’opera, di per se variabile, perché, tra l’altro, legata a fattori personali destinati a modificarsi nel tempo, deve essere determinata dal giudice, ai sensi dell’art. 2263 c.c., con un giudizio equitativo che sappia tener degli elementi che, di volta in volta, caratterizzano la fattispecie” (Cass. n. 8468/1994).
Ciò posto, spesso il socio d’opera rivendica la propria posizione di prestatore non solo come socio, che come tale partecipa agli utili e alle perdite, ma anche come lavoratore subordinato.
Tuttavia, è più frequente l’ipotesi inversa ovvero la fattispecie di colui che invoca la ripartizione degli utili in virtù della propria posizione di socio – d’opera – contro la società che oppone l’illegittimità della pretesa per mancanza del rapporto sostanziale e ciò perché il socio – creditore è in realtà mero lavoratore subordinato.
E allora come distinguere la posizione del socio d’opera da quella del lavoratore subordinato?
Se la specificazione è già inserita all’atto della costituzione della società oppure se la stessa si è formalizzata successivamente con l’ingresso del nuovo socio, il problema non si pone giacché fa piena prova lo statuto.
Più complesso possono sembrare quelle ipotesi di società irregolare oppure di socio occulto il quale, improvvisamente, rivendica la propria posizione così da far valere i propri diritti sugli utili, ma anche sulle perdite.
In dette ipotesi, posto che l’onere di provare la qualità di socio, ancorché occulto, incombe sul socio d’opera occulto, la giurisprudenza sin dal 1982, senza cambio di rotta, ha ricordato alcuni elementi sintomatici dai quali poter distinguere il rapporto subordinato di lavoro da quello del socio d’opera.
In particolare occorre evidenziare che anche qualora il lavoratore subordinato fosse retribuito per mezzo della partecipazione agli utili, ciò non determina l’automatismo della costituzione del rapporto sociale con la società e tra i soci, sicché solo ove vi fosse partecipazione agli utili ma anche alle perdite nonché l’esercizio di una attività economica organizzata con ingerenza nella gestione da parte del socio, quest’ultimo potrà far valere i diritti derivanti dalla qualità di socio e pertanto non potrà opporsi alcun rapporto di lavoro subordinato:
“Nelle società di persone la posizione del socio d’opera è diversa dalla posizione del prestatore di lavoro subordinato retribuito mediane partecipazione agli utili, la quale essendo caratterizzata essenzialmente dal rapporto di subordinazione, esclude di per sé l’esistenza di un rapporto di società, che si esplica mediante il concorso della gestione sociale con diritto agli utili e soggezione alle perdite. L’elemento della retribuzione non è sufficiente per qualificare rapporto di prestazione d’opera quella intercorso tra le parti, sicché, una volta accertato, con riferimento alla volontà negoziale dei contraenti che gli accordi contrattuali erano diretti all’esercizio in comune di un’attività economica, al fine di dividerne gli utili, bene è esclusa la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato” (Cass. n. 6855/1982).
Logicamente e per concludere, è bene precisare che il lavoratore subordinato retribuito mediante partecipazione agli utili che vuol ottenere dichiarazione di socio d’opera, dovrà tenere conto che in caso di sentenza affermativa, per il rispetto del patto leonino, egli godrà certamente degli utili, ma anche dovrà sopportare le perdite che prima nella posizione di subordinato non sopportava.