Uso illegittimo dei beni sociali: società occulte e usucapione

“La mancata esteriorizzazione del rapporto societario costituisce il presupposto indispensabile perché possa legittimamente predicarsi, da parte del giudice, l’esistenza di una società occulta, ma ciò non toglie che si richieda pur sempre la partecipazione di tutti i soci all’esercizio dell’attività societaria in vista di un risultato unitario, secondo le regole dell’ordinamento interno, e che i conferimenti siano diretti a costituire un patrimonio “comune”, sottratto alla libera disponibilità dei singoli partecipi (art. 2256 c.c.) ed alle azioni esecutive dei loro creditori personali (art. 2270 e 2305 c.c.), l’unica particolarità della peculiare struttura collettiva “de qua” consistendo nel fatto che le operazioni sono compiute da chi agisce non già in nome della compagine sociale (vale a dire del gruppo complessivo dei soci) ma in nome proprio.” (Cass. n. 17925/2016)

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Questione apparentemente scontata con problematiche che configurerebbero come  semplicistiche, sono costituite dalle fattispecie inerenti gli usi “illegittimi” dei beni sociali, criticità che si presentano più di quanto lo si immagini specie in società ove i soci sono legati da rapporti informali.
Un ambiente informale, spesso può costituire la strada per una presa di confidenze tali da ingenerare la errata convinzione che determinate condotte non possano essere considerate come illegittime, sicché il socio non procederà mai a richiamare formalmente il proprio partner in affari.
Un rapporto societario cosi fondato non costituisce base solida per la creazione di una compagine societaria stabile e affidabile per i creditori e investitori nel tempo.
Ciò premesso, in tema di illegittimo uso dei beni sociali, è sempre bene far riferimento ai dati normativi al fine di comprendere:
– in cosa consista l’illegittimità dell’utilizzo;
– se l’art. 2256 c.c. possa applicarsi in ipotesi di società occulte;
– se un uso duraturo nel tempo possa determinare l’usucapione del bene;
Seppur in maniera estremamente semplicistica, per rispondere agli indicati quesiti è necessario tenere conto del riferimento normativo di cui al codice civile nonché dei dati giurisprudenziali in nostro possesso.
L’art. 2256 c.c. dispone con assoluta chiarezza il seguente principio: Il socio non può servirsi, senza il consenso degli altri soci, delle cose appartenenti al patrimonio sociale per fini estranei a quelli della società”. 
Da ciò si rappresenta che la norma è interessante non tanto per quello che dice ma per quello che non dice con particolare riferimento ad una migliore definizione del concetto del “servirsi” nonché della forma del consenso necessaria per autorizzare i cosi detti “fini estranei”a quelli della società riportati in seno all’art. 2256 c.c.
L’aspetto naturalmente più agevole per l’interprete pare essere la parte relativa al consenso con il quale i soci possono autorizzare l’utilizzo dei beni sociali anche per fini estranei
Potrebbe porsi il problema della forma di questo consenso specie in quelle società caratterizzate da un alto numero di soci ove un controllo da parte di tutti sui beni sociali appare verosimilmente difficile sicché potrebbe essere agevole stabilire, già in seno all’atto costitutivo, le forme da adottare per autorizzare uno o più soci a servirsi dei beni sociali per scopi estranei alla società.
Pertanto, una prima fonte di regolamentazione della forma del consenso va individuata nella volontà dei soci ovvero nella lex societatis, tenuto conto che in mancanza di previsioni, rimane libera la forma secondo la quale autorizzare un uso estraneo agli scopi sociali e ciò atteso che le prescrizioni codicistiche non specificano ulteriormente.
A parare dello scrivente è opportuno, in ogni caso, ottenere specifica autorizzazione direttamente dall’assemblea e ciò anche per fugare ogni dubbio relativo alla sussistenza o meno di ogni responsabilità in capo agli utilizzatori.
Ciò posto, evidentemente a salvaguardia dell’oggetto e degli scopi sociali, l’utilizzo dei beni possa definirsi illegittimo non solo ogni qualvolta gli stessi vengano utilizzati per finalità che non sono previste nello statuto ma anche andrebbe sempre evidenziato:
– se, nonostante l’autorizzazione, in seno allo statuto vi è una clausola di assoluta inutilizzabilità dei beni anche in presenza di consenso;
– oppure, in assenza di clausola, intervenuto il consenso questo è divenuto illegittimo in virtù di inadempimento sull’accordo.
Sull’ultimo punto, qualora fosse intervenuto il consenso dei soci, ciò non pregiudica la possibilità procedere alla revoca/risoluzione del consenso e al risarcimento del danno qualora l’utilizzo abbia sforato i limiti negoziati.
E’ che chiaro che il servirsi dei beni sociali deve essere inteso in senso lato, ovvero non solo un utilizzo materiale diretto del bene, ma anche un utilizzo mediato per il tramite di terzi autorizzati: ad esempio l’utilizzo di un immobile conferito a titolo di locazione, leasing o comodato.
Allo stesso tempo anche il disinteresse da parte della compagine societaria e della proprietà possano determinare usucapione del bene, premesso in dette ipotesi è necessario un atto di interversione del possesso atteso che l’utilizzo sotto consenso ne ha determinato la detenzione: Il socio di una società in nome collettivo che utilizza per scopi personali un bene di proprietà sociale con il consenso degli altri soci, ai sensi dell’art. 2256 c.c., ne consegue la detenzione e non il possesso, per cui ai fini dell’usucapibilità del bene è necessario un successivo atto di interversione del possesso, il quale non può consistere di per sé nel semplice godimento del bene.” (Cass. n. 2487/2000).
Altrettanto interessante sarebbe comprendere se la norma di cui all’art. 2256 c.c. possa altresì applicarsi anche alle ipotesi di società occulta, ovvero non registrata e non esistente sul piano formale ma tuttavia vivente e nota ai terzi sul piano sostanziale.
Proprio la portata sostanziale dell’attività della società occulta, il cui socio tuttavia sembra operare più per fini espressamente individuali che per fini che coinvolgono l’ente societario, porta alla conclusione positiva circa l’utilizzabilità o meno della norma.
Uno spunto è reso dalla giurisprudenza riportata in epigrafe secondo la quale “La mancata esteriorizzazione del rapporto societario costituisce il presupposto indispensabile perché possa legittimamente predicarsi, da parte del giudice, l’esistenza di una società occulta, ma ciò non toglie che si richieda pur sempre la partecipazione di tutti i soci all’esercizio dell’attività societaria in vista di un risultato unitario, secondo le regole dell’ordinamento interno, e che i conferimenti siano diretti a costituire un patrimonio “comune”, sottratto alla libera disponibilità dei singoli partecipi (art. 2256 c.c.) ed alle azioni esecutive dei loro creditori personali (art. 2270 e 2305 c.c.), l’unica particolarità della peculiare struttura collettiva “de qua” consistendo nel fatto che le operazioni sono compiute da chi agisce non già in nome della compagine sociale (vale a dire del gruppo complessivo dei soci) ma in nome proprio.” (Cass. n. 17925/2016).
Il giudice di legittimità, definendo i requisiti propri per delineare l’esistenza di una società occulta, ivi indica anche che i beni qualora conferiti – ma ciò valga anche per il capitale sociale – devono essere destinati all’utilizzo secondo l’art. 2256 c.c. e, pertanto, un utilizzo circoscritto agli scopi sociali, salvo consenso.
Contro gli usi illegittimi è sempre possibile ricorrere al Giudice al fine, non solo di far accertare l’uso distorto dei beni sociali, ma anche per far dichiarare risoluzione del contratto con il quale è stato prestato il consenso se l’utilizzo è stato posto oltre i limiti concordati, oltre che ordinare la cessazione dell’utilizzo in caso di condotte reiterate nel tempo. Ciò sempre tenuto conto del risarcimento del danno dovuto ai soggetti interessati.

 

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