“In ipotesi di validità della clausola di gradimento è legittimato a chiedere l’autorizzazione per l’alienazione dei titoli azionari il solo socio alienante; qualora invece la clausola sia ritenuta nulla o il rifiuto illegittimo, anche il socio acquirente sarà legittimato a far valere l’opponibilità del trasferimento alla società” (Cass. n. 7890/1995)

E’ noto che nell’ambito delle S.p.a., la cui partecipazione del socio è rappresentata dalle azioni in suo possesso che forniscono piena contezza di quanto lo stesso “pesi” durante un’assemblea dei soci, si può disporre a mezzo di clausole statutarie, ovvero anche tramite patti parasociali, limiti alla circolazione delle azioni.
Se poi il limite è disposto dalla legge, è ovvio parlare di limiti legali anzichè limiti convenzionali o derivati da patti parasociali.
A parere di chi scrive, son di particolare interesse le limitazioni che vengono disposte per effetto della “contrattazione” dei soci perché, in virtù dell’autonomia contrattuale che permette alle parti di perseguire interessi meritevoli di tutela, possono dare luogo a inadempimenti e vizi delle clausole rilevabili in giudizio con effetti diversi.
Sui limiti derivanti dallo statuto l’art. 2355 bis C.C. dispone la regola secondo la quale “Nel caso di azioni nominative ed in quello di mancata emissione dei titoli azionari, lo statuto può sottoporre a particolari condizioni il loro trasferimento e può, per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto, vietarne il trasferimento” .
Dalla presente disposizione il legislatore ha voluto concedere ai soci la facoltà di subordinare l’ingresso di nuovi soci a determinati condizioni che possono essere meglio specificate dallo statuto, financo la possibilità di limitare totalmente il cambio della compagine sociale per un periodo massimo di 5 anni e con l’obbligo che il titolo azionario deve menzionare espressamente tali limiti ai fini della conoscibilità da parte del socio acquirente.
Diversa è la clausola di gradimento, la quale non rientra tra i c.d. limiti legali ed è caratterizzata dal subordinare l’ingresso di nuovi soci, e quindi la vendita del titolo da del vecchio socio, al gradimento degli organi sociali o di una parte dell’assemblea dei soci o dei sindaci o amministratori.
In tale ipotesi si pone un problema relativo alla legittimità del diniego posto dagli organi sociali oppure da una parte sola dell’assemblea che sia stato espressamente dichiarato come insindacabile: l’efficacia in tal caso è dovuta solo se all’alienante, come per le clausole di mero gradimento ai sensi del 2355 bis C.C., è concesso il diritto di recesso, ovvero sussiste un obbligo della società a dei soci ad acquistare i titoli del socio uscente.
Tuttavia, anche tenendo conto di tali adempimenti, tali clausole si prestano ad essere impugnate presso le autorità giudiziarie essendo ancora discussa la loro ammissibilità.
Ed ancora, è possibile che la compagine sociale abbia voluto subordinare il gradimento all’appartenenza di alcuni requisiti di natura oggettiva e soggettiva del nuovo socio, il quale in mancanza, previa verifica da parte degli organi sociali, non potrà acquistare i titoli azionari che aveva intenzione di comprare.
Oltre ciò devono essere segnalate le clausole di mero gradimento che, come le sopra menzionate, prestano il destro a sollevare diversi problemi.
Infatti, mentre clausole per le quali devono sussistere requisiti determinati e individuabili permettono di avere dei riferimenti valutativi delle decisioni degli organi sociali, in quelle di mero gradimento nasce un problema anche di interpretazione del concetto di “mero gradimento”.
A titolo esemplificativo potrebbe apparire, ma non è, una clausola di tal genere quella che subordina il trasferimento delle azioni alla comunicazione per iscritto al Cda e la successiva risposta entro un termine congruamente motivata in relazione agli interessi della società, circostanza quest’ultima che permette di effettuare una valutazione sulla sua fondatezza dell’esclusione essendo ancorata a determinati principi mutuati nell’interesse della società: “È proprio la necessità della congrua motivazione con riferimento all’interesse della società che rende possibile il successivo controllo della fondatezza dell’impedimento, in concreto frapposto dal consiglio di amministrazione al trasferimento, ed esclude che la clausola possa qualificarsi come clausola di mero gradimento e che, pertanto, alla medesima possa riferirsi la previsione dei correttivi di cui all’art. 2355 bis, 2° co., c.c., vale a dire la previsione del diritto di recesso” (Trib. Milano n. 8606/2009).
Dal punto di vista processuale, legittimato attivo rimane l’alienante il quale può azionare l’autorità giudiziaria per ottenere la dichiarazione di autorizzazione alla vendita dei titoli all’acquirente, il quale può agire in giudizio solo nelle ipotesi di nullità o inefficacia della clausola di gradimento.
Ulteriori limiti, tuttavia, possono risultare anche dai patti parasociali, i quali a loro volta possono essere contenuti nell’atto costitutivo della società con importanti effetti in termini di opponibilità avendo acquisito efficacia reale.
Un’esempio tipico sono i c.d. sindacati di blocco in base ai quali i soci si accordano tra loro per limitare la circolazione delle azioni dopo la costituzione dell’ente, financo la possibilità di prevedere la totale circolazione delle stesse che però, per effetto dei principi generali del diritto, deve essere circoscritto a convenienti limiti temporali come previsto all’art. 1379 C.C..